PUNK in SIBERIA parte 1(5)
Siberia. Che cosa evoca nella nostra immaginazione? Spazi sterminati, natura incontaminata, freddo, neve, esilio, deportazioni, campi di prigionia e… gruppi punk! Sì, perchè In Siberia, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 si è sviluppata un’originalissima scena punk, a totale insaputa del resto del mondo. Città come Omsk, Novosibirsk, Tyumen, Barnaul… alla maggior parte delle persone non dicono niente, ma alcune superano il milione di abitanti. Sono brutte metropoli industriali in mezzo al nulla dove la popolazione vive in condizioni climatiche estreme. Se ad un simile contesto di grigiore ed isolamento aggiungete l’assenza di libertà tipica della vita ai tempi del socialismo reale avrete un quadro – per quanto agghiacciante – piuttosto realistico di che cosa significasse vivere in Siberia negli anni ’80. Ma facciamo qualche passo indietro, per capire come il punk ci sia potuto arrivare fino in Siberia…
ANARCHY IN U.S.S.R.
Quando di sottocultura punk se ne inizia a parlare, per i media dell’Unione Sovietica è una moda abietta, simbolo della decadenza culturale e morale dell’occidente capitalista. La stampa di regime definisce i punk fascisti, violenti, reazionari. D’altronde, la svastica che Johnny Rotten sfoggia al braccio – dicono i sagaci commentatori sovietici – parla da sé.
Feddy Lavrov alla fine degli anni ’70 è un adolescente di Leningrado (l’odierna San Pietroburgo), la capitale più occidentale e vivace della Russia sovietica. E’ lì che il punk in Russia muove i primi passi. Feddy, che oggi è un brillante cinquantenne che lavora nel campo dell’arte, ci ha raccontato il suo incontro con il punk: “La prima volta in assoluto, ne ho sentito parlare come di una “nuova moda” nel 1977, in un numero della rivista satirica sovietica chiamata “Krokodil” (divertente il titolo di questa rivista se si pensa che alcuni decenni dopo krokodil sarebbe diventato il nome di una droga terribile e tristemente nota qui in Russia…). Comunque sia, in quella rivista il punk non veniva nemmeno scritto “punk”: il suo nome era traslitterato in russo, quindi era scritto pank con la a! Stesso discorso per i nomi dei gruppi come Stranglers (che diventavano gli strangolatori), i Dead Boys (i ragazzi morti) e i Damned (i dannati), definiti dall’autore dell’articolo come “band jazz che hanno inventato un nuovo stile e si esibiscono sul palco con tagli di carne fresca appesa al collo”. Cooosa? Che potevamo pensare di questo nuovo genere di musica? BoH! Non ne capivamo niente. Considerate che a quell’epoca il governo aveva paura della musica rock in generale, figuriamoci di questo genere così strano e nuovo di zecca…”.
Ai tempi dell’URSS suonare rock in pubblico e far circolare senza permesso le registrazioni della propria band, è un reato. Se poi si tratta di dischi occidentali, le pene si fanno decisamente più severe. Perchè il mercato discografico in Unione Sovietica è gestito da un’unica casa di produzione di Stato, la Melodya, che decide ciò che la popolazione può e non può ascoltare. E il punk non lo può assolutamente ascoltare.
“La televisione ad un certo punto – continua Feddy – ci ha fatto vedere dei “veri punk” per le strade di Londra. Lo scopo era quello di mostrarne lo squallore, la volgarità, affinché la brave famiglie sovietiche esclamassero: dio che orrore questi punk!” e gli adolescenti come me, ne restassero terrorizzati per tutta la vita… o cose del genere, ma insomma… la tv di stato spesso commetteva queste ingenuità tutte sovietiche. Così il risultato di quella visione fu che qualcosa si accese dentro di me. Avevo 13 anni e corsi da mia madre urlando: “Ehi, mamma! D’ora in poi sono un punk!”. Lei non capì, ma fu così intelligente da intuire che fosse qualcosa che avesse a che fare con la musica. Mi comprò quindi una batteria ed altre attrezzature per suonare. Sono stato davvero fortunato! Ma che cosa potevamo fare come gruppo punk in Unione Sovietica alla fine degli anni ’70? Beh, suonare chiusi in casa. I concerti dal vivo non erano ammessi senza autorizzazione ed ogni infrazione in questo senso era perseguita. Anche la registrazione casalinga era illegale, ma sono riuscito ugualmente a mettere insieme un studio artigianale e così ho subito iniziato a registrare le prove del mio gruppo, gli Otdel Samoiskoreneniâ – il dipartimento dell’autosradicamento”.
L’arte di arrangiarsi è decisiva per le prime punk band russe. Strumenti e amplificatori sono sostanzialmente irreperibili in Urss, e se lo sono costano svariati mesi di stipendio: “Tutto quello che avevo – dice Feddy – era un registratore monofonico con nastri da 6mm e una serie di piccoli mixer a 3 canali messi in linea in modo da poter collegarci tutti gli strumenti e i microfoni. Non avevamo ampli e nemmeno effetti per le chitarre. Anche queste ultime erano realizzate artigianalmente: per quanto mi riguarda ho costruito due bassi e tre chitarre! Tutti erano autentici pezzi di art-brut! Fuori, intanto, la polizia era ovunque, prelevava punk e hippie direttamente dalla strada e ne collezionava le foto segnaletiche…”.
C’è da dire che l’amico Feddy, precoce punk dell’Urss, vive a Leningrado, a due passi dall’Europa, in una delle città più culturalmente vivaci dell’impero, e di certo orientata verso le mode occidentali. Nella capitale, a Mosca, il punk, nei primi anni 80, non ha grossa diffusione tra gli appassionati di musica rock, rimanendo avvolto da un alone di leggenda, ma anche di diffidenza.
Artemy Troisky, il grande divulgatore del rock russo degli anni ’80, ci spiega un po’ il perché di questa diffidenza nei confronti del punk anche da parte dei rocker sovietici: “Ci sono fondati motivi per cui il punk e la new-wave (al contrario per esempio del rock progressivo) impiegarono tanto tempo per sfondare in Urss. La ragione principale è psicologica: essendo sempre stati ridotti al rango di cugini poveri della cultura “vera”, i nostri rockers erano portati alla ricerca di un certo “prestigio”, e intendo con ciò arrangiamenti musicali complicati, virtuosismo tecnico, testi poetici e abiti eleganti. Il pathos anarchico, la sciatteria e l’approccio amatoriale nella musica rock, così popolari in occidente dal 77 in poi, erano estranei ai nostri musicisti. Mentre per Johnny Rotten poteva essere un segno di affermazione essere chiamato punk, reietto, brigante e pezzente dalle generazioni più anziane, i nostri rocker erano stati indicati con appellativi del genere per anni, senza motivo, e volevano sbarazzarsi di questa fama […].Erano come bambini desiderosi di approvazione da parte dei propri genitori…”.
Malgrado questo disinteresse, ed anzi questa ostilità dei rockettari russi per il punk, qualcuno che va fuori di testa per questo stile, oltre a Feddy Lavrov, c’è e si chiama Andrei Panov, che la leggenda vuole essere il primo vero punk-rocker di Leningrado.
Folgorato dalla notizia che da qualche parte in occidente è esistito un gruppo irriverente chiamato Sex Pistols, il diciannovenne Andrev – detto il Suino – decide, nell’estate del 1979, di mettere in piedi una rock band il cui nome sarebbe stato la traduzione, più o meno fedele, di Pistole del Sesso. Purtroppo, forse per incomprensioni linguistiche, non trova nome migliore di Avtomaticheskiye Udovletvoriteli “I soddisfatori automatici”. Come nel caso di Feddy Lavrov e dei suoi Otdel Samoiskoreneniâ fino alla fine degli anni 80 i Soddisfatori Automatici furono un gruppo fantasma, un nome negli elenchi della polizia segreta più che una vera e propria realtà musicale. I componenti della band, come da tradizione punk, avevano altisonanti nomignoli offensivi: Andrev era appunto “il Suino”, poi c’erano “Pinochet”, “Il Fruscìo” e “Rabbioso”. Le loro canzoni avevano nomi stupidi e sciatti come “Nonsenso”, “Risata”, “Cagna” e “Ubriachezza”. Panov era un personaggio irriverente, un Johnny Rotten comunista, per il quale il punk non aveva nulla di politico, ma era solo provocazione estetica e rifiuto della tradizione musicale russa.
TUTTO STA ANDANDO SECONDO I PIANI
Suino e Feddy a parte, il punk-rock, nelle capitali della Russia sovietica alla fine degli anni ’70, non prende piede: praticato da quattro gatti e principalmente per imitazione di una moda occidentale, resta un genere esotico, drasticamente underground.
Il punk vero, quello che non è una posa né una forma di emulazione, ma una questione esistenziale e politica – e quindi una cosa molto pericolosa in Unione Sovietica – diventa affare dei provinciali. E quindi dei Siberiani.
Cos’è la Siberia? Tutto il resto della Russia, dagli Urali verso est! Terra di miniere, tetri kombinat industriali e campi di prigionia. In siberia si vive di merda e lontani da tutto. La vodka è il principale conforto dell’uomo sovietico, ma anche il primo chiodo della sua bara. E in Siberia non c’è molto altro da fare che bere vodka. E nelle cucine, dove si scolano fiasche di torcibudella artigianale, si discute, si litiga o si fa filosofia da ubriaconi; al riparo delle mura domestiche si coltiva un’insofferenza amara, un odio stanco ormai masticato e rimasticato per il partito, per i governanti, per la vita.
Un economista del tempo – uno di quei tizi che si arrovellavano per capire perché un diavolo di niente funzionasse nel sistema del socialismo reale – ci descrive l’aria che si respirava nella provincia dell’impero sovietico alla metà degli anni ’80, qualche tempo prima della sua rovinosa caduta:
“L’apatia, l’indifferenza, il furto, la mancanza di rispetto per il lavoro onesto sono diventati fenomeni di massa e al tempo stesso vi è un odio aggressivo verso chi guadagna molto, anche se guadagna onestamente. Sono apparsi i segni di una degradazione quasi fisica in una parte significativa del popolo sul terreno dell’alcolismo e dell’ozio. Infine vi è una mancanza di fiducia verso gli scopi proclamati e i disegni volti ad affermare che è possibile un’organizzazione della vita economica e sociale più razionale”.
Se c’è qualcuno che è stato capace di trasformare in poesia questa negatività, questo malessere esistenziale caratteristico dell’ultimo decennio di socialismo reale in Russia, questo qualcuno si chiama Igor’ Fëdorovič Letov.
Egor Letov, non fu soltanto il personaggio chiave della scena punk siberiana, ma un vero e proprio eroe per tutti i giovani dissidenti della Russia sovietica. Il nome di Letov e dei suoi Grazhdanskaya Oborona (Difesa Civile) lo si trova scarabocchiato ovunque nelle città russe di quegli anni.
Letov nasce nel 1964 ad Omsk, in Siberia, e si appassiona fin da piccolo alla musica grazie al fratello maggiore Sergei, che diventerà un rinomato sassofonista jazz negli anni a venire. All’inizio degli ’80 Egor effettua le sue prime registrazioni amatoriali in casa: canta, suona la chitarra e, come percussione, usa una valigia vuota.
Forma i Grazhdanskaya Oborona nel 1984, con l’aiuto dell’amico Konstantin Ryabinov al basso. La prime registrazioni dei Grob – abbreviazione di Grazhdanskaya Oborona ma anche “bara” in russo – risalgono al 1985. Qualcuna di queste cassette malamente registrate passa di mano in mano tra amici e conoscenti fino a cadere in quelle sbagliate: il KGB di Omsk diventa subito fans della band e dimostra il suo apprezzamento spedendo Letov in un ospedale psichiatrico e Ryabinov nell’esercito. Qualche mese dopo Letov esce dal manicomio (nel quale è stato sottoposto ad una “cura“ a base di psicofarmaci che gli ha causato danni permanenti alla vista); nel frattempo, ha maturato un odio viscerale per il regime sovietico e decide di dedicarsi anima e corpo alla band; per tutta la seconda metà degli anni ’80 sarà un fiume in piena: comporrà centinaia di canzoni, spesso suonandole e registrandole da solo con l’aiuto di strumenti di fortuna.
I testi dei pezzi dei Grazhdanskaya Oborona sono poetici, allucinati, visionari, venati di un profondo senso di sconfitta, di nichilismo, ma anche di odio, disprezzo e derisione del sistema sovietico. Le attenzioni del KGB nei confronti di Letov non si allentarono mai, ma lui non si fece intimidire e non conobbe tregua. Nel 1988 ad esempio, tallonato dalla polizia, riesce a tornare in gran segreto a Omsk, per incidere tre album in tre giorni. In un giorno registra la batteria, il successivo il basso e la chitarra, quello dopo voce e assoli (contemporaneamente!). Poi se la dà a gambe e fa perdere le proprie tracce. Uno di questi tre album si intitola Vsë idët po planu (Tutto sta andando secondo i piani):
La chiave per i nostri confini è stata spezzata in due
Nostro Padre Lenin è rinsecchito
E’ ricoperto di una patina di muffa e miele selvatico
La Perestroika è in corso, tutto sta andando secondo i piani.
Il fango si è trasformato in ghiaccio, tutto sta andando secondo i piani.
Il mio destino chiede un po’ di riposo.
Ho promesso che non parteciperò al gioco della guerra.
Ma il mio berretto è un berretto da militare e sopra c’è un martello e una falce e una stella
Come faccio? C’è un martello, una falce e una stella.
Si agita il fuoco delle più fulgide attese, tutto sta andando secondo i piani.
Solo nostro nonno Lenin era un buon leader
Tutti gli altri sono merda.
Tutti gli altri sono nemici e stronzi maledetti
Sulla nostra patria, sulle terra dei nostri padri, sta scendendo una folle neve.
Ho comprato una copia della rivista “Corea” anche loro hanno il meglio
Hanno il compagno Kim Il-sung, stanno bene come stiamo noi.
Sono sicuro, è così, tutto sta andando secondo i piani.
Beh, quando arriveremo al comunismo tutto sarà fottutamente grande.
Ci si arriverà presto, non ci resta che aspettare.
Tutto sarà libero allora, tutto sarà ad un livello superiore.
Probabilmente non avremo più paura di morire.
Mi sono svegliato all’improvviso nel cuore della notte e ho tirato un respiro di sollievo,
mi sono reso conto che tutto sta andando secondo i piani.
Articolo di Stiopa & Sarta
Kalashnikov collective